giovedì 16 marzo 2017

Bisogno di sicurezza - da: " Riflessi di coscienza "

Ultimamente avverto un gran bisogno di sicurezza!! Ho alcuni progetti ( uno in particolare non mi sta dando pace... ) e brancolo nel buio... Ho pensato, quindi, di pubblicare questo capitolo del mio romanzo, nella speranza che vi possa esser gradito...

BISOGNO DI SICUREZZA
Era quello, oltretutto, il periodo in cui facevo pratica presso mio padre, nel suo studio di veterinaria ed un paio di volte si era unito a noi anche Matthew, dato che anche lui studiava veterinaria. Mio padre non lo sopportava granché e una volta mi disse, riferendosi al mio amico: - È un viziato e non conosce minimamente la parola: & sacrificio &, Alexander! E l'umiltà è, o meglio: dovrebbe essere una priorità nella vita di ogni persona. Ricordatelo sempre...
Concordavo con mio padre sul fatto che Matthew fosse alquanto sregolato e poi lui si reputava sempre in prima linea su ogni ambito. Questa sua arroganza, con il tempo, fortunatamente, si andò a smussare un po'.
Papà la conobbe quasi subito, Anna.
Accantonato quel fattaccio capitato nella mia stanza ai tempi del liceo, decisi di presentargliela meglio ad una cena a casa nostra; era da pochi mesi che ci frequentavamo.
Conservo un altro triste ricordo, legato agli antefatti di quella cena: un'ennesima discussione riguardante mia madre.
- Papà, io vorrei farti conoscere Anna. Pensi possa essere prematura questa mia decisione? - Gli domandai, esitante, alla ricerca di un suo consiglio, mentre mi trovavo occupato a disinfettare gli strumenti del nostro studio.
- Se tu la reputi una brava ragazza e se, comunque, tu stai bene insieme a lei, perché dovrebbe esserlo?? - Mi rispose, sfilandosi i guanti in lattice. Era in procinto di svestirsi del camice.
- Quindi a te farebbe piacere se cenassimo tutti insieme? Voglio dire... Da noi?
- S-sì, ma certo! C'è solo un piccolo problema...
- E sarebbe?
- Sai benissimo che io non so assolutamente cucinare, perciò direi che converrebbe comprare una cena take-away! - Sorrise, sistemandosi i capelli e osservandosi allo specchio del piccolo mobile della sala, in cui tenevamo i prodotti disinfettanti.
Accennai a mia volta un sorriso ed aggiunsi: - A questo non c'è problema! Vorrà dire che per una volta abbandoneremo l'idea del tuo polpettone e ci affideremo alla cucina giapponese!
- Ah! E così il mio polpettone non ti piace, eh??
- No, non molto! Ma parlando di cose serie. Come ti sono sembrato oggi? Qui, all'opera?
Gli chiesi quel prezioso parere carico di speranze e intanto mi apprestavo a disinfettare anche il pavimento. Mio padre si stava dirigendo nella saletta d'aspetto per accertarsi che tutto fosse in ordine e da lì mi rispose: - Devi acquistare un po' più di sicurezza ed avere una precisione metodica Alexander! Non possiamo permetterci di commettere un errore con in nostri amici a quattro zampe. Dico bene?
Sapevo a cosa si stesse riferendo ed io, stufo dei suoi soliti e boriosi sermoni: - Non va mai bene nulla, vero??
- C-cosa Alexander?? - Mi chiese con aria sorpresa.
Lui pretendeva sempre di più da me e mi sembrava che non apprezzasse mai nulla o quasi nulla di ciò che facevo.
- Non puoi, alcune volte, elogiare qualche mio progresso?? Altrimenti, se dici che non è il caso di sforzarmi tanto, beh allora io mi toglierò questo camice e lo appenderò accanto al tuo, senza doverlo più reindossare!! - Ero infuriato e per una volta tanto nella vita, io avvertivo l'impellente necessità di una sua parola di conforto; che mi desse la giusta carica per credere ancor di più in ciò che stavo facendo, al suo fianco.
- Alexander... Non reputo assolutamente che tu debba abbandonare e lo sai. Se io sono così...
Ed io lo interruppi: - È perché vuoi solo il meglio per me! La storia ormai è nauseabonda papà!
Mio padre, desolato: - Io... Io non ci so fare con le parole... La mamma, di sicuro, se la sarebbe cavata meglio in una situazione come questa...
- S-sì! Magari mi avrebbe dato un colpo in testa e via! - La frase sgorgò senza un minimo controllo dalla mia bocca e il viso di mio padre, che già si era fatto più triste, si aggrottò ulteriormente. Continuò poi a svolgere le sue azioni quotidiane, mirate alla chiusura dello studio, senza rivolgermi più una sola parola.
Una volta terminate roboticamente, con un tono severo, poco prima di uscire dalla porta, mi domandò: - Ci penserai tu a chiudere a chiave?
- Sì! - Ma non fece in tempo ad ascoltare la mia risposta, perché lui se ne era già uscito, sbattendo la porta alle sue spalle.
Solo in quel momento mi resi conto di quanto fossi stato duro con lui e di quanto le parole possano ferire una persona...
Quel pomeriggio decisi di recarmi, per una volta tanto, in visita da mia madre, senza dover essere spronato a farlo da mio padre. Raggiunsi con l'ascensore quella grande parete di cubi colorati.
Non riuscivo a comprendere nemmeno io il motivo di quella mia visita. Fui come guidato dall'istinto e non so se mi trovavo lì perché effettivamente desideravo vedere mia madre o perché volevo sotterrare l'ascia di guerra con mio padre...
Varcai la soglia di quel grande salone dalla parete di vetro variopinta e chiesi all'infermiera di turno dove si trovasse mia madre. La donna mi avvertì che al momento stava riposando e che, se volevo, potevo recarle visita in camera sua.
Ripresi, allora, l'ascensore ed arrivai al terzo piano, dove si trovavano le camere da letto dei pazienti. La numero 13 era quella di mia madre.
“ Perfino il numero della sua stanza era sfortunato! “, pensai non privo di sarcasmo.
Bussai alla numero 13, ma non udì una parola.
Ritentai: non vi fu di nuovo risposta.
Perciò decisi di tornare dall'infermiera, recandomi nuovamente al piano inferiore e vidi la donna intenta ad imboccare con un cucchiaino una vecchina, seduta sulla sua sedia a rotelle.
-  Mi scusi?!
- Sì?? Ha bisogno? - Sembrava seccata, ma forse era solamente molto impegnata con la anziana signora inespressiva, che attendeva il suo pasto. Si rivolse alla paziente: - Ora, signora Crammer, non ci sarà più il rischio di strozzarsi con il cibo! Ho frullato la sua cena, così sarà più tranquilla... - Stava trattando quella vecchina come fosse stata una bambina di due anni!
Mi voltai e mi guardai intorno: la maggior parte dei pazienti era costituita da persone anziane, a parte una ragazza sui 25-30 anni al massimo. Parevano quasi tutti affetti da disturbi mentali e chissà che cosa affliggeva di preciso quella ragazza, seduta sulla sua sedia, mentre osservava malinconica da una delle grandi finestre della sala.
Dopo una breve pausa: - La porta di mia madre... Non vuole aprirla...
- Come?? Che sia successo qualcosa alla povera Margareth... ? - Ripose l'infermiera, dopo un boccone della povera vecchina. La dipendente della clinica ripose il cucchiaino all'interno del piatto in plastica, che teneva sulle gambe, dentro al quale potevo scorgere una melma verdastra.
La donna si rivolse nuovamente alla paziente: - Signora Crammer, mi voglia scusare un attimo... Arriverà subito la mia collega ad aiutarla con la sua cena. - Adagiò il piatto sul tavolo accanto e l'anziana signora rimase con lo sguardo fisso su quel tavolino, senza proferire una parola, come se non fosse accaduto mai nulla in quei pochi istanti.
- Cindy!! - Gridò l'infermiera e una voce in lontananza le rispose: - Sii?
- Puoi darmi il cambio un secondo, per piacere? - Le chiese, mentre ci avvicinavamo all'ascensore. La porta si aprì dopo aver premuto il pulsante e salimmo insieme.
- Sua madre sarà di certo entusiasta...
- Perché? - Le domandai sorpreso.
- Della sua visita! Margareth parla sempre di lei, Alexander... - Accennò un sorriso.
- Come mai non risponde?
- Probabilmente si sarà appisolata!
Uscimmo dall'ascensore e l'infermiera tentò a sua volta di bussare alla porta di mia madre, ma invano, perché non vi fu risposta nemmeno per lei.
- Signora Stone? - L'infermiera iniziò a grattarsi la nuca, forse in segno di ansia e forte perplessità. Dopodiché, continuò, bussando alla porta: - Margareth?? Ci può aprire, per favore? Sono io: Catherine! C'è anche suo figlio Alexander! La prego: si svegli!
Non ci fu nulla da fare: la porta non si aprì e, tentando di origliare, non fummo in grado di avvertire alcun rumore di passi di mia madre.
Catherine si rivolse a me: - Alexander ascolti: mi attenda qui! Vado un attimo a prendere la chiave della porta di sua madre e perlomeno scopriremo il motivo del suo silenzio... - Era spaventata e fece una corsa fino all'ascensore.
Non avevo parole e iniziai a valutare la possibilità che a mia madre fosse capitato qualcosa di grave...
- Eccomi! - Affermò l'infermiera con voce ansimante a causa della breve corsa, dondolando tra le mani il mazzo delle chiavi delle stanze.
- La numero 13... Eccola! - Inserì la chiave nella fessura della porta e “ Clack! “, questa si aprì.
Eravamo entrambi terrorizzati, ed entrammo in quella stanza con passo felpato.
- Margareth?? - La chiamò l'infermiera, tuttavia mia madre non diede risposta e perciò mi unì al coro: - Mamma??
Mia madre era sdraiata sul suo letto, sotto alle coperte, in posizione fetale, con la testa rivolta verso il suo comodino e gli occhi chiusi.

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